FORMAZIONE E TECNOLOGIE: LA GESTIONE DELLO STRESS
Come già esplicitato altre volte, fare formazione si riferisce ad un percorso di apprendimento, un’opportuna di cambiare e migliorare se stessi. A questo proposito, una strada potrebbe essere quella di ottimizzare la propria abilità di gestire le difficoltà che la vita ci pone. Molto spesso queste ultime sono la causa di quello che in psicofisiologia viene chiamato stress, ovvero la normale risposta dell’individuo alla pressione esercitata dall’ambiente (esterno e interno, fisico e psichico). Strettamente legato a questo, c’è un modo di agire che può essere appresso e ottimizzato attraverso percorsi di formazione identificato con il termine resilienza: la capacità dell’individuo di fronteggiare gli eventi traumatici e riorganizzare la propria vita positivamente. Andiamo a vedere nello specifico da dove sono nati questi concetti e i metodi per poter ottimizzare la gestione degli ostacoli che ci mette davanti la vita.
Il primo a descrivere le manifestazioni somatiche legate allo stress fu Darwin nel 1872, riferendosi a stati di attivazione emozionale e comportamentale come sudorazione, dilatazione pupillare, tachicardia. Successivamente i più importanti studiosi dello stress sono stati Cannon e Selye. Il primo, attraverso degli studi sul sistema digestivo degli animali, ha creato delle ipotesi sulle reazione dell’organismo di fronte a situazioni di paura, pericolo o dolore. A questo proposito ha introdotto il concetto di “risposta attacco o fuga”, per descrivere il comportamento dell’individuo di fronte a contesti di paura o pericolo come reazione di attacco (fight) o fuga (flight) (Cannon, 1915). Il primo a coniare realmente la parole “stress” fu Selye, il quale ha identificato la risposta dell’organismo di animali e persone a diversi agenti stressanti (stressors) come “sindrome generale di adattamento”:
– Fase di allarme: la reazione immediata dell’organismo che innesca una serie di attivazioni neuro- vegetative con rilascio di adrenalina e noradrenalina, attivando il sistema nervoso autonomo e di conseguenza dei cambiamenti fisiologici che mirano all’autoconservazione (attacco o fuga)
– Fase di resistenza: in questa fase l’organismo procede ad un progressivo adattamento e recupe- ro dell’equilibrio.
– Fase di esaurimento: questa fase entra in atto quando l’esposizione allo stressor si prolunga. In questo caso l’organismo entra in una fase di esaurimento, i cambiamenti fisiologici danno vita a conseguenze patologiche.
E’ importante evidenziare che la risposta dell’organismo dipende da come vengono percepiti questi stressors (reale pericolo), oppure da aspettative di minaccia che creano ansia (percezione del pericolo). A tale proposito è bene fare una distinzione: lo stress non è sempre negativo, anzi si parla di eustress e distress. Nel primo caso è una risposta di adattamento a condizioni o eventi ambientali, che può appunto salvare la vita all’individuo di fronte ad una reale pericolo; nel secondo caso, si presenta una condizione di squilibrio (reale o percepita) tra lo stressor e le capacità di farvi fronte. In quest’ultima situazione, generalmente, la minaccia è di un’entità tale da provocare uno shock emotivo e può portare a problematiche non indifferenti come il Disturbo post-traumatico da stress e altre situazioni disagianti per l’individuo legate allo stress (disturbi da stress).
Un atteggiamento strettamente legato a questo tipo di situazioni di difficoltà, che permette all’individuo di ritrovare il suo equilibrio, è quello resiliente. Gli studi sulla resilienza sono nati dall’osservazione di un certo numero di bambini i quali, nonostante fossero esposti a diversi fattori di rischio e di conseguenza l’alta probabilità di successive problematiche psicosociali, in età adulta riuscivano comunque a stringere relazioni stabili, impegnarsi nel mondo del lavoro e verso il prossimo, dunque svolgere una vita appagante nonostante il loro passato tortuoso. Gli studiosi a questo punto si chiesero come fosse possibile aprendo un filone di studi sulla conoscenza dei fattori di prevenzione e protezione che possono influire su uno sviluppo adeguato. Il termine resilienza viene utilizzato in fisica per indicare un corpo che resiste agli urti per poi tornare alla sua forma originale. In biologia ci si riferisce alla capacità di autoripararsi dopo un danno. In psicologia resilienza indica “la capacità di un individuo di resistere agli urti della vita senza spezzarsi o incrinarsi, mantenendo e potenziando inoltre le proprie risorse sul piano personale e sociale” (Oliverio Ferraris, 2003). É stata definita anche come “la capacità di affrontare eventi stressanti, superarli e continuare a svilupparsi aumentando le proprie risorse con una conseguente riorganizzazione positiva della vita” (Malaguti, 2005). Quindi si potrebbe dire che la resilienza pone l’individuo nella posizione di crescere e sviluppare il suo potenziale in maniera efficace anche in presenza di fattori di rischio, gli stressors di cui parlavamo in precedenza. Attenzione a non credere, però, che la resilienza sia “un’arma” infallibile e onnipresente, perché anche le persone resilienti possono avere difficoltà a superare i traumi e altri fattori di rischio della vita. Stress e resilienza sono due concetti in stretto contatto tra loro. Cosa si può fare per lavorare su tutto ciò che abbiamo appena descritto? Si possono creare dei percorsi di formazione che supportino l’individuo ad una gestione dello stress più efficace, magari lavorando allo stesso tempo sull’apprendimento dell’essere resiliente. Vediamo qualche esempio insieme. La prima cosa su cui vorrei poneste l’attenzione è sul come creare degli interventi che favoriscano la resilienza e la gestione dello stress: intendo che è bene non focalizzarsi soltanto sul problema specifico, ma considerare sempre i bisogni, le risorse della persona o del gruppo su cui si va ad agire, il contesto in cui ci si trova ad operare. Infatti, proprio per questo motivo, gli approcci più efficaci sono quelli che pongono al centro del percorso l’individuo, partendo proprio dalle sue risorse con l’obiettivo di potenziarle e acquisirne di nuove. L’esperienza è il motore della formazione in quest’ambito, poiché si da la possibilità alle persone di mettersi in gioco, di esperire le proprie emozioni a contatto con gli altri attraverso attività specifiche. Il passo successivo sarà quello di un confronto su ciò che è successo, sulle risorse utilizzate. Una riflessione che contribuisce a diventare consapevoli di ciò che succede e che si è in grado di fare, con l’obiettivo di aumentare la fiducia in se stessi strettamente collegata con la resilienza. Un altro metodo di promozione della resilienza, anche se in letteratura sono ancora pochi gli studi, è quello della narrazione. Scrivere dei propri traumi è un’azione utile per la persona: “L’atto di costruire una storia personale aiuta le persone a comprendere le proprie esperienze e se stessi, così come consente di organizzare e ricordare gli eventi in modo coerente integrando pensieri e senti- menti. Tutto ciò da alle persone un senso di controllo sulla propria vita e questo perché una volta che si è riusciti a strutturare e dare un significato alla propria storia gli effetti a livello emozionale dell’esperienza narrata diventano più gestibili” (Pennebaker & Seagal, 1999).
Oggi questi percorsi hanno subito dei cambiamenti e si sono dovuti progettare training sempre più in modalità online. La difficoltà maggiore in questo caso è quella di non riuscire a garantire la partecipazione attiva della persona: a supporto di questo problema ci è venuta in aiuto la tecnologia, in particolare la realtà virtuale. Essa ci permette di creare dei percorsi di potenziamento delle risorse individuali (autostima, gestione delle emozioni), percorsi di riabilitazione, garantendo un alto grado di interattività, di sperimentazione attiva, grazie all’utilizzo di visori e software all’avanguardia. La realtà virtuale è stata utilizzata, ad esempio, per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress, soprattutto nel contesto militare. Il principio guida di questo trattamento sembra essere la re-introduzione graduale alle esperienze innescanti il trauma (Paulson e Krippner, 2007). In pratica si induce il paziente a rivivere in maniera graduale la situazione traumatica, ma in un contesto controllato e senza sforzare il soggetto ad affrontare ciò a cui ancora non è pronto. A questo proposito l’Institute for Creative Technologies (ICT) ha dato vita ad un progetto per creare un sistema di ambienti virtuali in cui far immergere gradualmente i veterani della guerra dell’Iraq con diagnosi di PTSD (Rizzo, 2006). In tempi più recenti questa tecnologia ha preso piede anche nella riabilitazione cognitiva (Gaggioli, Keshner e Riva, 2009; Morganti e Riva, 2006). La “riabilitazione virtuale” aumenta fortemente il divertimento, il coinvolgimento e la motivazione del paziente (Morganti, 2004), possedendo i caratteri dell’intensità e ripetitività tipici dei protocolli tradizionali, con la caratteristica di essere “task oriented”. Un esempio molto recente è l’app Cerebrum, la consente all’utente di immergersi in situazioni esperienziali che simulano la realtà quotidiana, utili a lavorare su risorse e difficoltà degli utenti. Quest’ultimo attraverso il visore visualizza dei video 360°, con la possibilità di esplorare la scena e risponde alle domande del clinico riabilitatore, permettendo inoltre un monitoraggio costante da parte del professionista.
Vrainers ha sviluppato un training guidato da un avatar di sembianze umane, in cui l’individuo viene immerso in un percorso virtuale grazie al quale può ottimizzare le proprie capacità. Un allenamento che favorisce un apprendimento dinamico e coinvolgente, sotto la supervisione di Psicologi ed esperti di Realtà Virtuale e Intelligenza Artificiale. L’obiettivo principale, dunque, è quello di facilitare la formazione anche in situazioni d’emergenza come quella che stiamo ancora vivendo. Il centro dei percorsi che si vengono a creare insieme all’avatar è sempre la persona, la quale viene sempre affiancata da uno psicologo, come due figure che procedono insieme verso un obiettivo comune.
Possiamo concludere quindi affermando che la realtà virtuale è un importante mezzo di prevenzione e d’apprendimento, che permette di vivere un’esperienza in maniera diretta, di “immergersi” nella situazione concreta, simulata virtualmente. Il contenuto di quest’interfaccia multisensoriale (coinvolge la vista, l’udito ma anche il movimento) permette ai partecipanti di vivere esperienze individualizzate ed emotivamente coinvolgenti, in un contesto controllato, imparando da esse e riportandole nell’ambiente reale (trasferibilità dell’apprendimento).
Bibliografia e Sitografia:
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Autore articolo:
Francesco Palazzo
Laureato in scienze e tecniche psicologiche presso l’Università degli studi L’Aquila. Specializzato in Psicologia del Benessere: empowerment, riabilitazione e tecnologie positive, presso L’Università Cattolica del Sacro Cuore sede di Milano. Master in Psicologia dello sport. Specializzato sull’utilizzo delle Tecnologie Positive applicato ai diversi ambiti psicologici, conducendo uno studio sperimentale sul potenziamento cognitivo e del gesto tecnico-motorio su giovani tennisti agonisti tramite un training integrato di allenamento mentale e realtà virtuale
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